Giovanni Fisher nacque nel 1469 a Beverley, e ordinato sacerdote a ventidue anni, fu al pari dell'amico Tommaso More, un uomo di grande cultura. Ma alla vasta erudizione, che fece di lui un vero figlio della sua epoca, unì un grande zelo e una totale abnegazione nell'esercizio dei suoi doveri di vescovo della piccola diocesi di Rochester, alla cui sede era stato eletto nel 1504, congiuntamente all'incarico di cancelliere dell'università di Cambridge. Accettò serenamente la condanna a morte, che venne eseguita il 22 giugno 1535, a un mese dalla sua elevazione alla dignità cardinalizia, con cui Paolo III volle onorarlo per la sua fedeltà e coraggio.
Quindici giorni dopo, venne decapitato Tommaso More, reo anch'egli di non aver riconosciuto al re la pretesa supremazia spirituale. Nato a Londra nel 1477, in gioventù Tommaso avrebbe voluto consacrasi totalmente a Dio in un monastero certosino; intraprese invece la carriera legale, toccando l'apice della notorietà con la nomina a cancelliere d'Inghilterra nel 1529. Padre di quattro figli, mantenne sempre una condotta esemplare. Si alzava alle due del mattino per pregare e studiare fino alle sette, recandosi poi a Messa. Neppure una convocazione del re interrompeva i suoi pii esercizi. Rinchiuso nella Torre di Londra, in attesa del processo, che si tenne l'11 Luglio 1535, scrisse il dialogo del conforto contro le tribolazioni, uno dei capolavori della lingua inglese.
Santi Giovanni Fisher, vescovo, e Tommaso More, martiri, che, essendosi opposti al re Enrico VIII nella controversia sul suo divorzio e sul primato del Romano Pontefice, furono rinchiusi nella Torre di Londra in Inghilterra. Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, uomo insigne per cultura e dignità di vita, in questo giorno fu decapitato per ordine del re stesso davanti al carcere; Tommaso More, padre di famiglia di vita integerrima e gran cancelliere, per la sua fedeltà alla Chiesa cattolica il 6 luglio si unì nel martirio al venerabile presule.
Dalla «Lettera» di Tommaso More, scritta in carcere alla figlia Margaret Roper.
Mi rimetto interamente a Dio, sperando pienamente in lui.
Mia cara Margherita, io so che, per la mia cattiveria, meriterei di esser abbandonato da Dio, tuttavia non posso che confidare nella sua misericordiosa bontà, poiché la sua grazia mi ha fortificato sino ad ora e ha dato tanta serenità e gioia al mio cuore da rendermi del tutto disposto a perdere i beni, la patria e persino la vita, piuttosto che giurare contro la mia coscienza. Egli ha reso il re favorevole verso di me, tanto che finora si è limitato a togliermi solo la libertà. Dirò di più. La grazia di Dio mi ha fatto così gran bene e dato tale forza spirituale da farmi considerare la carcerazione come il principale dei benefici elargitimi.
Non posso, perciò, dubitare della grazia di Dio. Se egli vorrà, potrà mantenere benevolo il re nei miei riguardi, al fine che non mi faccia alcun male. Ma se decide ch'io soffra per i miei peccati, la sua grazia mi darà certo la forza di accettare tutto pazientemente, e forse anche gioiosamente. La sua infinita bontà, per i meriti della sua amarissima passione, farà sì che le mie sofferenze servano a liberarmi dalle pene del purgatorio e anzi ad ottenermi la ricompensa desiderata in cielo.
Dubitare di lui, mia piccola Margherita, io non posso e non voglio, sebbene mi senta tanto debole. E quand'anche io dovessi sentire paura al punto da essere sopraffatto, allora mi ricorderai di san Pietro, che per la sua poca fede cominciò ad affondare nel lago al primo colpo di vento, e farei come fece lui, invocherei cioè Cristo e lo pregherei di aiutarmi. Senza dubbio allora egli mi porgerebbe la sua santa mano per impedirmi di annegare nel mare tempestoso. Se poi egli dovesse permettere che imiti ancora in peggio san Pietro, nel cedere, giurare e spergiurare (me ne scampi e liberi nostro Signore nella sua amorosissima passione, e piuttosto mi faccia perdere, che vincere a prezzo di tanta bassezza), anche in questo caso non cesserei di confidare nella sua bontà, sicuro che egli porrebbe su di me il suo pietosissimo occhio, come fece con san Pietro, e mi aiuterebbe a rialzarmi e confessare nuovamente la verità, che sento nella mia conoscenza. Mi farebbe sentire qui in terra la vergogna e il dolore per il mio peccato.
Ad ogni modo, mia Margherita, io so bene che senza mia colpa egli non permetterà mai che io perisca. Per questo io mi rimetto interamente in lui pieno della più forte fiducia. Ma facendo anche l'ipotesi della mia perdizione per i miei peccati, anche allora io servirei a lode della giustizia divina. Ho però ferma fiducia, Margherita, e nutro certa speranza che la tenerissima pietà di Dio salverà la mia povera anima e mi concederà di lodare la sua misericordia. Perciò, mia buona figlia, non turbare mai il tuo cuore per alcunché mi possa accadere in questo mondo. Nulla accade che Dio non voglia, ed io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio.
(Da: Correspondence, ed. by E. F. Rogers, Princeton, 1947, pp. 530-532)
Tommaso Moro (Londra, 7 febbraio 1477 - 22 giugno 1535), laico di grande cultura ed esperienza politica, fu cancelliere del regno. L’uno e l’altro si opposero al tentativo del re Enrico VIII di ottenere da Roma lo scioglimento del proprio matrimonio e, soprattutto, alla sua pretesa di porsi a capo della Chiesa d’Inghilterra, spezzando la comunione ecclesiale. Furono messi a morte entrambi per la loro coerente testimonianza.
Dal Comune dei martiri: per più martiri.
O Dio, che hai fatto del martirio la testimonianza suprema della vera fede, concedi anche a noi, sorretti dall’intercessione dei santi Giovanni [Fisher] e Tommaso [Moro], di confermare con la testimonianza della vita la fede che professiamo con la parola. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.