La nota pagina dell’Esodo è stata da sempre presentata come la manifestazione del nome di Dio, benché si sappia che la frase “Io sono colui che sono”, (’ehjeh ’ašer ’ehjeh) non vuole indicare qualcosa di determinato, bensì una realtà indeterminata che lascia aperte molte possibilità (“Io sono quello che voglio essere”, cf. “Esodo” traduzione e commento di M. Noth). Mosè riceve la missione di condurre il popolo verso la terra promessa, colui che commissiona tale compito è invisibile ed ha un nome che “è tutto un programma”. Gli egiziani avrebbero materia sufficiente per sospettare delle parole di Mosè e diffidare ancora di più degli Israeliti. Ma è proprio quel nome che dà forza ed è quel riferimento alle radici (il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe) che consente di credere. Abramo, Isacco e Giacobbe non avevano forse stimato vere le promesse in situazioni angosciose, disperate e terribili? E allora, ora tocca anche a questo personaggio, Mosè, destinato a divenire celebre nella memoria collettiva d’Israele, credere ed agire. Nel Vangelo l’esortazione di Gesù è rivolta a quanti, come gli israeliti della prima lettura, vivono situazioni di fatica esistenziale, per chi si sente senza radici, per quanti non riescono a dare un senso alla propria vita. Tutti gli “affaticati e oppressi” hanno bisogno della pienezza della vita. Vogliono sentirsi dire “Venite”, per poi poter comunicare agli altri “Io sono, mi ha mandato”.
Sforzati di entrare nella cella del tesoro che è dentro di te e vedrai quella che è in cielo: l'una e l'altra sono un'unica (cella), e per una sola porta le vedrai entrambe. La scala che conduce al Regno è nascosta dentro di te, nella tua anima. Tu immergiti in te stesso, (lontano) dal peccato, e lì tu troverai i gradini per i quali salire.
QUALE DEVE ESSERE L'ABATE Né chiuda gli occhi sui vizi dei trasgressori, ma appena cominciano a nascere li strappi fin dalle radici con tutte le forze, memore della triste fine di Eli, sacerdote di Silo (cf. 1 Sam 2,27-34). E i più docili e disponibili li riprenda a parole, ammonendoli una prima e una seconda volta; ma i malvagi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti li reprima con le battiture o altri castighi corporali sin dal primo apparire del vizio, sapendo che sta scritto: «Lo stolto non si corregge a parole» (Pr 29,19); e ancora: «Percuoti con la verga tuo figlio e lo strapperai dalla morte» (Pr 23,14).