L'osservanza della penitenza vale come segno e volontà della conversione del cuore, in particolare nell'amore concreto che condivide con gli altri i propri beni. Il profondo rinnovamento del nostro spirito è tale se incide nelle nostre scelte della vita. Il Vangelo di oggi parla proprio del fatto che i discepoli di Gesù non digiunano, perché hanno compresso che c'è qualcosa, o meglio Qualcuno, che vale più del digiuno e con il quale fare festa: il Signore Gesù. Del resto, quando Lui non sarà più visibilmente presente con loro, essi dovranno digiunare, cioè essere suoi testimoni fedeli nella sofferenza e nelle persecuzioni. Il nostro digiuno, ci suggerisce il vangelo, è in relazione con la passione di Cristo. Egli ci invita ad adorare Dio in spirito e verità. Il digiuno per un cristiano è l'occasione per testimoniare la forza dello spirito. Non è credibile uno che parli di vita spirituale e poi si lascia "giocare" dalla gola. In un libro antichissimo, del secondo secolo, intitolato "Didaché - La dottrina degli Apostoli", si consiglia ai cristiani di non digiunare negli stessi giorni in cui digiunano gli Ebrei, ma il venerdì, come ricordo della passione di Gesù. E' dunque un rapporto personale con Lui che ci ispira quando ci incamminiamo per una via di privazioni, di mortificazione, di sforzi ascetici. Ed evidentemente, se ci uniamo alla passione di Gesù, è molto difficile che possiamo inorgoglirci dalle nostre mortificazioni. La passione di Cristo non si realizza su un semplice sacrificio rituale, ma su un atto di misericordia. La sua passione è nello stesso tempo obbedienza al Padre e gesto di estrema carità, solidarietà con tutti noi. Nella sua passione, Cristo scioglie le nostre catene di ingiustizia, di egoismo, di superbia, di orgoglio... Egli condivide il pane con l'affamato, con il bisognoso. Attingiamo da Cristo vera carità, e i nostri cuori si apriranno agli altri; la nostra carità sarà davvero una buona Quaresima, perché saremo attenti più agli altri che a noi stessi, saremo più disponibili, più comprensivi, più buoni...
«Non è ancora perfetta quella preghiera in cui il monaco ha coscienza di sé e del fatto stesso di pregare».
L'UMILTÀ Il settimo gradino dell'umiltà si sale quando il monaco, non solo a parole si dichiara l'ultimo e il più spregevole di tutti, ma si ritiene veramente tale anche nel più profondo del cuore, umiliandosi e dicendo col profeta: «Io sono verme e non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo» (Sal 21,7); «mi sono esaltato e allora sono stato umiliato e confuso» (Sal 87,16 Volg.); e ancora: «Bene per me se sono stato umiliato, perché impari ad obbedirti» (Sal 118,71).