Nel buio della notte ardono dei fuochi sui sacrati delle nostre chiese. Il sacerdote benedice quel fuoco che servirà a far ardere un cero. Con quella luce verrà squarciato il buio, è la luce di Cristo, è il cero pasquale. Seguendo quell'unica scia, entriamo festanti nella chiesa, da quel cero attingiamo la nostra luce, la fede che già ci fu donata nel giorno del nostro battesimo. Ora tutta la chiesa splende, tutta la chiesa canta la gioia del Cristo risorto. È la nostra veglia, la splendida conclusione dei tre lunghi giorni d'attesa. Ora il mondo intero è illuminato dalla luce di Cristo: è la Pasqua del Signore. Ascoltiamo la nostra storia, quella che affonda nei tempi lontani, quella che noi stiamo vivendo, quella che sarà fino alla fine dei tempi: è la storia sacra, quella che scandisce il peccato del mondo e i prodigiosi e salvifici interventi divini. Arriviamo al mattino radioso, al mattino del Risorto, arriviamo fino al culmine alla pienezza della storia. Corriamo anche noi al sepolcro per avere la certezza che è vuoto. Ci rechiamo al cenacolo per vederlo vivo, per ascoltare l'annuncio della sua pace. Vogliamo convincerci fino in fondo che la sua pasqua è anche la nostra pasqua. Vogliamo essere certi, come Tommaso, che per le sue piaghe siamo salvati e redenti. Vogliamo respirare a pieni polmoni l'aria buona del mattino di Pasqua. Dobbiamo alimentare la gioia con la certezza di essere stati rigenerati, ricreati, redenti e perdonati da Dio. Non possiamo neanche per un istante restare nel dubbio che la vittima sia ancora chiusa in un sepolcro, vogliamo liberarci dall'atroce pensiero di aver ucciso per sempre il Figlio di Dio. Vogliamo vedere vuoti anzitempo i nostri sepolcri e spalancate le porte del cielo. Vogliamo all'unisono far sentire a Dio la nostra lode, la nostra gratitudine, il nostro rinnovato impegno di fedeltà. Vogliamo che la pasqua diventi il pensiero dominante della nostra vita, la fonte della nostra speranza, il primo motivo del nostro amore a Cristo. Vogliamo poterci dire "Buona Pasqua" e sapere come renderla buona e santa per ognuno di noi, non solo oggi, ma per tutta la vita, per l'eternità.
Se fai il tuo lavoro manuale nella cella e viene l'ora della preghiera, non dire: «Finirò i miei ramoscelli e il piccolo cesto e dopo mi alzerò», ma alzati subito e rendi a Dio il debito della preghiera; diversamente prenderai a poco a poco l'abitudine di trascurare la tua preghiera e il tuo Uffizio e la tua anima diventerà deserta di ogni opera spirituale e corporale. Poiché è dall'alba che si mostra la tua volontà.
I FRATELLI INFERMI La cura degli infermi è da mettere prima di tutto e al di sopra di tutto, in modo che ad essi si serva davvero come a Cristo in persona, perché egli ha detto: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36); e ancora: «Quel che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). Gli infermi, da parte loro, devono essere consapevoli che sono serviti in onore di Dio e non affliggere con eccessive pretese i fratelli che li assistono; tuttavia essi devono essere in ogni caso sopportati con pazienza, perché attraverso di loro si acquista una maggiore ricompensa. L'abate pertanto abbia la massima premura che i malati non siano trascurati in nessun modo.