Noi esseri umani siamo concepiti in uno stato di cecità fisica e spirituale. Quella fisica ordinariamente la acquistiamo in breve tempo, quella spirituale è affidata al sacramento del battesimo, che genera in noi i germi della fede e ci annovera tra i figli di Dio. Ciò ci consente di immedesimarci immediatamente con il «ceco nato» del vangelo di questa quarta domenica di quaresima. Se noi non siamo più cechi è solo perché siamo stati gratuitamente illuminati da Cristo, la luce vera che illumina ogni uomo. L'evangelista Giovanni descrive efficacemente il passaggio dallo stato di disagio, causato dalle tenebre, allo splendore della luce e della fede. Ciò comporta prima la consapevolezza della propria cecità e poi l'accettazione del dono della fede, significata dalla luce di Cristo. La prima luce però, egli la dona agli stessi apostoli, i quali sulla scia della tradizione giudaica, erano convinti che le disgrazie umane fossero sempre frutto del peccato e comminate da Dio come punizione: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare». Ridare luce all'uomo e sottrarlo alle tenebre della notte, è dunque «l'opera di Dio» per eccellenza, fa parte della missione di Cristo, è il dono più prezioso e più atteso dall'uomo. Il primo effetto della luce è quello di mettere a nudo le scorie pesanti del peccato e il fango che ci imbratta e non ci consentono più di vedere, bisogna quindi andare a lavarci alla fontana, purificare il nostro spirito nella divina misericordia. Dove c'è acqua pura e zampillante, dove c'è l'acqua che Cristo sa donare, avviene sempre il miracolo della purificazione. «Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva». È poi normale che coloro che non sono nella luce e non sono purificati nello spirito, che non vogliono e non possono comprendere, intentino l'ennesimo processo contro Cristo e contro colui che ha recuperato miracolosamente la vista. Oggi più che mai noi credenti dobbiamo esprimere la più intensa gratitudine a Dio, perché, senza alcun nostro merito, siamo annoverati tra i figli della luce, abbiamo il dono incommensurabile della fede, che illumina di radiazioni divine il nostro futuro e il nostro presente.
L'abba Antonio predisse all'abba Amun: «Tu farai molti progressi nel timore di Dio». Poi lo condusse fuori dalla cella e gli mostrò una pietra: «Mettiti a ingiuriare questa pietra», gli disse, «e colpiscila senza smettere». Quando Amun ebbe terminato, sant'Antonio domandò se la pietra gli avesse risposto qualcosa. «No», disse Amun. «Ebbene! anche tu», aggiunse l'anziano, «devi raggiungere questa perfezione».
SE I MONACI POSSONO AVERE ALCUNCHÉ DI PROPRIO Nel monastero bisogna estirpare fin dalle radici soprattutto questo vizio: che nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate; né avere alcunché di proprio, nulla nel modo più assoluto: né libro, né tavolette, né stilo, proprio niente insomma; dal momento che ai monaci non è lecito disporre nemmeno del proprio corpo e della propria volontà. Tutto il necessario invece lo devono sperare dal padre del monastero; e non sia lecito avere alcuna cosa che l'abate non abbia data o permessa. Tutto sia comune a tutti - come sta scritto - e nessuno dica o ritenga qualcosa come sua proprietà (At 4,32). E se si scoprirà un fratello che asseconda questo pessimo vizio sia ripreso una prima e una seconda volta; se non si corregge, sia sottoposto alla disciplina regolare.