Oggi il Vangelo ci fa ascoltare una testimonianza di Gesù, il quale si lamenta che molti non l'accettano. "Egli attesta ciò che ha veduto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza". Chi ne accetta la testimonianza si pone in rapporto diretto con il Padre, in quanto ne riconosce la verità nelle parole dell'Inviato e ne vive anche la comunione. "Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa", ossia gli ha comunicato l'autorità e il potere. Ciò è vero, ma l'evangelista vuole sottolineare che il Figlio di cui si parla è Gesù storico, il Messia Salvatore che ha subito la morte di croce per la salvezza dell'umanità. E questo Gesù, vero Dio e vero uomo, che rivela la sua profonda esperienza di intima comunione con il Padre e con lo Spirito Santo, afferma il suo diritto a essere ascoltato e creduto. "Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non crede al Figlio non vedrà la vita". Il Vangelo parla chiaro: per Dio i credenti e i non credenti in Gesù non sono affatto la stessa cosa. Dio pone una profonda differenza tra coloro che accettano e seguono il suo Figlio, che egli ci ha mandato, perché lo accettassimo e lo seguissimo. E' in lui e per mezzo di lui che ci dona la sua stessa vita. "L'ira di Dio rimane su di lui", ossia su coloro che pur avendo conosciuto questo Figlio, continuano a vivere e a comportarsi come se non lo avessero conosciuto mai. L'ira di Dio non è per se stessa una minaccia irrimediabile, è il rifiuto di Gesù come salvatore, rischio in parte che possiamo correre tutti. Che cosa faremo allora di fronte a questo richiamo così perentorio? Non dovremmo puntare certo il dito contro l'uno o contro l'altro dicendo: "L'ira di Dio si scatena sul mondo per colpa tua". Dovremmo credere profondamente a quanto ci viene detto dal Signore. E' lui che dà la vita e la morte. Tu che credi, cerca di rendere credibile la tua fede, perché altri si accostino alla vita.
L'abba Antonio predisse all'abba Amun: «Tu farai molti progressi nel timore di Dio». Poi lo condusse fuori dalla cella e gli mostrò una pietra: «Mettiti a ingiuriare questa pietra», gli disse, «e colpiscila senza smettere». Quando Amun ebbe terminato, sant'Antonio domandò se la pietra gli avesse risposto qualcosa. «No», disse Amun. «Ebbene! anche tu», aggiunse l'anziano, «devi raggiungere questa perfezione».
SE I MONACI POSSONO AVERE ALCUNCHÉ DI PROPRIO Nel monastero bisogna estirpare fin dalle radici soprattutto questo vizio: che nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate; né avere alcunché di proprio, nulla nel modo più assoluto: né libro, né tavolette, né stilo, proprio niente insomma; dal momento che ai monaci non è lecito disporre nemmeno del proprio corpo e della propria volontà. Tutto il necessario invece lo devono sperare dal padre del monastero; e non sia lecito avere alcuna cosa che l'abate non abbia data o permessa. Tutto sia comune a tutti - come sta scritto - e nessuno dica o ritenga qualcosa come sua proprietà (At 4,32). E se si scoprirà un fratello che asseconda questo pessimo vizio sia ripreso una prima e una seconda volta; se non si corregge, sia sottoposto alla disciplina regolare.