La parabola riportata nella liturgia odierna chiarisce il pensiero di Gesù sull'amore al prossimo. Lo scriba aveva chiesto chi fosse il suo prossimo. Gesù risponde capovolgendo la questione. Non è quanto gli altri sono prossimi a noi, il cosiddetto prossimo, il vicino a vari titoli, ma quanto noi siamo prossimi, premurosi verso gli altri. In che modo lo siamo? Il racconto parabolico non presenta interesse, che lo sfortunato incappato nei briganti sia o no il nostro prossimo. La domanda di Gesù allo scriba è significativa: “Chi di questi tre ti sembra che sia stato il prossimo, l'interessato di colui che è incappato nei ladroni?” E' il samaritano, il nemico giurato dei Giudei, che si è dimostrato prossimo all'infortunato. E' la risposta a cui giunge lo scriba. Infatti un samaritano, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione. In questa piccola, ma rivoluzionaria frase è svelata con grandissima evidenza, la qualità propria dello sguardo cristiano. E' la compassione di chi si prende cura di lui, lasciando per il momento i propri affari, il proprio viaggio. E' la compassione che tira fuori di tasca due denari e li da all'albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui, il resto te lo rifonderò al mio ritorno”. Sappiamo bene che il buon Samaritano è Gesù, quando venne e ci vide, ebbe tanta compassione di noi da condurre avanti il grande disegno del Padre suo che era proprio quello di dare la vita per i fratelli. Ora anche lo scriba, che chiedeva ambiguamente: “chi è il mio prossimo?” sa chi è, e Gesù lo conferma: “va' e anche tu fa' lo stesso”. E' la nostra missione...
L'abba Antonio predisse all'abba Amun: «Tu farai molti progressi nel timore di Dio». Poi lo condusse fuori dalla cella e gli mostrò una pietra: «Mettiti a ingiuriare questa pietra», gli disse, «e colpiscila senza smettere». Quando Amun ebbe terminato, sant'Antonio domandò se la pietra gli avesse risposto qualcosa. «No», disse Amun. «Ebbene! anche tu», aggiunse l'anziano, «devi raggiungere questa perfezione».
SE I MONACI POSSONO AVERE ALCUNCHÉ DI PROPRIO Nel monastero bisogna estirpare fin dalle radici soprattutto questo vizio: che nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate; né avere alcunché di proprio, nulla nel modo più assoluto: né libro, né tavolette, né stilo, proprio niente insomma; dal momento che ai monaci non è lecito disporre nemmeno del proprio corpo e della propria volontà. Tutto il necessario invece lo devono sperare dal padre del monastero; e non sia lecito avere alcuna cosa che l'abate non abbia data o permessa. Tutto sia comune a tutti - come sta scritto - e nessuno dica o ritenga qualcosa come sua proprietà (At 4,32). E se si scoprirà un fratello che asseconda questo pessimo vizio sia ripreso una prima e una seconda volta; se non si corregge, sia sottoposto alla disciplina regolare.