Liturgia della Settimana

preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire, Bassano Romano (VT)  
27 Novembre - 03 Dicembre 2005
Tempo di Avvento I, Colore viola
Lezionario: Ciclo B, Salterio: sett. 1

Commento alle Letture

Venerdì 02 dicembre 2005

Il Signore è la mia speranza...

Il Signore è la mia speranza, tale è il ritornello che ci introduce nel vivo del tema di oggi. Le condizioni umane, la finitezza, la debolezza non sono un aiuto per l'uomo che vuole vivere una vita che sia fuori dei parametri dell'esistenza. Esse possono fare che si dimentichi questo ritornello del salmista. L'uomo di fronte alle vicende della vita, dell'esperienza della sua finitezza, può perdere il motivo di sperare in un futuro migliore cadendo così nella disperazione, che porta alla chiusura degli occhi dinanzi alla realtà della redenzione che sarà realizzata in Cristo e con Cristo. Il profeta Isaia ci dona un motivo di non disperare di fronte ad ogni situazione della vita, ma sperare in quel mondo nuovo, nonostante le infermità spirituali, la nostra realtà di peccaminosità.
La facilità con la quale l'uomo, il cristiano si dispera è motivo di riflessione. Oggi è facile disperare e difficile sperare perché è l'era dell'incertezza. La cecità guadagna gli occhi e l'oscurità copre la faccia e la sordità regna negli orecchi e così "hanno gli occhi e non vedono, hanno gli orecchi e non odono". Si diventa come uno che non sente e non risponde. Il salmista ci dice di sperare nel Signore, un invito questo che può sembrare non facile. Bisogna essere forti e rinfrancarsi il cuore per resistere quando tutto sembra essere problematico. La vita nella fede deve trovare il luogo dove rinfrancarsi: si può rinfrancare in Cristo e in lui sperare la liberazione. Si vive credendo e si crede sperando in Colui che viene. È lui, proprio lui la salvezza, la liberazione dalle nostre infermità, sia spirituali che fisiche è il medico delle nostre anime. Ciò che il profeta Isaia annunzia si avvera in Cristo e con Cristo che ridona la vista ai ciechi. La cecità è simbolo delle infermità spirituali che chiudono gli occhi per non vedere più ciò che si può vedere con il dono della fede. Il peccato non permette di vedere perché offusca la vista, allontana da Dio, e per riacquistare la vista, l'esigenza è quella di riconoscere il proprio peccato, decidere di andare incontro al Signore. L'evangelista Matteo ci parla di due ciechi, che riconoscendo i propri peccati attraverso le parole: "Figlio di Davide, abbi pietà di noi". Ci sono due indicazioni in questa affermazione. La prima è di mostrare o meglio di indicare la provenienza di Colui che viene, la sua discendenza. Egli viene dalla discendenza di Davide. Essa indica anche la sua missione, quella di perdonare affinché il peccatore riprenda vita, il cieco ci veda. È Colui che risponde alle suppliche di chi lo cerca, lo implora con fede. Egli è luce per far si che colui che si trova nella cecità possa vedere perché alla sua luce vediamo la luce (Salmo 35, 10) nel senso che è sorgente della vita e in lui tutti riprendono a vivere, a vedere; l'invisibile diventa visibile è l'inudibile diventa udibile. Il discendente di Davide è Gesù, Colui che apre gli occhi dei ciechi. Chi crede, a Natale i suoi occhi si apriranno per vedere quello che era nascosto. Gli occhi di cui si parla sono gli occhi della fede, gli occhi del cuore che vedono e riconoscono, gli occhi della fede che credono. La fede rende il cuore come un frutteto per il fatto che riceverà il Signore che viene nella fede. La fede rende disponibile il cuore di ospitare il Signore che viene e il suo cuore vedrà quel Signore per essere toccato e gli occhi vedranno perché solo con la sua luce si vede la luce.


Apoftegmi - Detti dei Padri

Abba Epifanio disse: "Ai peccatori che si pentono, come alla peccatrice, al ladrone e al pubblicano, il Signore perdona tutto il debito. Ma ai giusti chiede anche gli interessi. Ecco cosa significa ciò che disse agli apostoli: se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli".


Dalla Regola del nostro Santo Padre Benedetto

I MONACI PELLEGRINI

E se in seguito vorrà fissare lì la sua stabilità, non si respinga questo suo desiderio, tanto più che nel periodo dell'ospitalità si è potuto ben conoscere il suo tenore di vita. Ma se, mentre è stato ospite, si è dimostrato pieno di esigenze o di difetti, non solo non deve essere aggregato alla comunità, ma anzi gli si dica con garbo di andarsene, perché le sue miserie non contagino anche gli altri. Se invece non è tale da meritare di essere allontanato, non solo se lo chiede lui sia associato alla comunità, ma anche si insista perché rimanga, in modo che gli altri siano edificati dal suo esempio: infatti in ogni luogo si serve un solo Signore e si milita sotto un unico Re.

Cap.61,5-10.