preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
Nove mesi prima del Natale del Signore, la solennità dell'Annunciazione celebra il misterioso incontro tra Dio e l'uomo nel grembo di una donna. Maria, «giardino chiuso», «fontana sigillata» (Ct 4, 12), accoglie la parola di Dio e si lascia fecondare dallo Spirito che su di lei, nuova Tenda dell'incontro, stende la sua ombra (cf. Lc 1, 35; Es 40, 34-35), tessendo nel suo grembo l'umanità di Cristo, l'Uomo Nuovo, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo. Attraverso l'«eccomi» di Maria (Lc 1, 38) si compie il fiat del Figlio di Dio il quale, entrando nel mondo, dice: «Un corpo mi hai preparato[...]. Allora ho detto: "Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà"» (Eb 10, 5.7). Nei primi secoli, la festa dell'Annunciazione rimase inserita nel ciclo natalizio; solo dal secolo VII diede luogo a una specifica ricorrenza liturgica.
Se la solennità cade nella Settimana Santa, si trasferisce al lunedì dopo la II domenica di Pasqua.
Solennità dell'Annunciazione del Signore, quando nella città di Nazareth l'angelo del Signore diede l'annuncio a Maria: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo», e Maria rispondendo disse: «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola». E così, compiutasi la pienezza dei tempi, Colui che era prima dei secoli, l'Unigenito Figlio di Dio, per noi uomini e per la nostra salvezza si incarnò nel seno di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo e si è fatto uomo.
Dalle «Lettere» di san Leone Magno, papa
Il mistero della nostra riconciliazione
Dalla Maestà divina fu assunta l'umiltà della nostra natura, dalla forza la debolezza, da colui che è eterno, la nostra mortalità; e per pagare il debito che gravava sulla nostra condizione, la natura impassibile fu unita alla nostra natura passibile. Tutto questo avvenne perché, come era conveniente per la nostra salvezza, il solo e unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, immune dalla morte per un verso, fosse, per l'altro, ad essa soggetto.
Vera integra e perfetta fu la natura nella quale è nato da Dio, ma nel medesimo tempo vera e perfetta la natura divina nella quale rimane immutabilmente.
In lui c'è tutto della sua divinità e tutto della nostra umanità.
Per nostra natura intendiamo quella creata da Dio al principio e assunta, per essere redenta, dal Verbo. Nessuna traccia invece vi fu nel Salvatore di quelle malvagità che il seduttore portò nel mondo e che furono accolte dall'uomo sedotto. Volle addossarsi certo la nostra debolezza, ma non essere partecipe delle nostre colpe.
Assunse la condizione di schiavo, ma senza la contaminazione del peccato. Sublimò l'umanità, ma non sminuì la divinità. Il suo annientamento rese visibile l'invisibile e mortale il creatore e il signore di tutte le cose. Ma il suo fu piuttosto un abbassarsi misericordioso verso la nostra miseria, che una perdita della sua potestà e del suo dominio. Fu creatore dell'uomo nella condizione divina e uomo nella condizione di schiavo. Questo fu l'unico e medesimo Salvatore.
Il Figlio di Dio fa dunque il suo ingresso in mezzo alle miserie di questo mondo, scendendo dal suo trono celeste, senza lasciare la gloria del Padre.
Entra in una condizione nuova, nasce in un modo nuovo. Entra in una condizione nuova: infatti invisibile in se stesso si rende visibile nella nostra natura; infinito, si lascia circoscrivere; esistente prima di tutti i tempi, comincia a vivere nel tempo; padrone e signore dell'universo, nasconde la sua infinita maestà, prende la forma di servo; impassibile e immortale, in quanto Dio, non sdegna di farsi uomo passibile e soggetto alle leggi della morte.
Colui infatti che è vero Dio, è anche vero uomo. Non vi è nulla di fittizio in questa unità, perché sussistono e l'umiltà della natura umana, e la sublimità della natura divina.
Dio non subisce mutazione per la sua misericordia, così l'uomo non viene alterato per la dignità ricevuta. Ognuna delle nature opera in comunione con l'altra tutto ciò che le è proprio. Il Verbo opera ciò che spetta al Verbo, e l'umanità esegue ciò che è proprio della umanità. La prima di queste nature risplende per i miracoli che compie, l'altra soggiace agli oltraggi che subisce. E, come il Verbo non rinunzia a quella gloria che possiede in tutto uguale al Padre, così l'umanità non abbandona la natura propria della specie.
Non ci stancheremo di ripeterlo: L'unico e il medesimo è veramente Figlio di Dio e veramente figlio dell'uomo. E' Dio, perché «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1). E' uomo, perché: «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14).
(Lett. 28 a Flaviano, 3-4; PL 54, 763-767)
Ultimo dei padri latini, sant'Isidoro venne sempre riguardato come il più illustre dottore della Chiesa di Spagna. Ebbe i natali a Siviglia verso il 560. Morto suo padre, fu educato dal fratello Leandro. Eletto vescovo della sua città, scrisse con grande erudizione molti libri intorno ai più svariati argomenti. Presiedette in Spagna molti concili ch'egli stesso aveva riuniti e nei quali furono prese sagge disposizioni per il bene della Chiesa. In mezzo a tante fatiche del ministero, non trascurò mai le pratiche di pietà e l'esercizio della vita interiore: con la preghiera, la meditazione e la penitenza avvalorava tutte le azioni della giornata. La sua morte avvenne nel 636.
Sant'Isidoro, vescovo e dottore della Chiesa, che, discepolo di suo fratello Leandro, gli succedette nella sede di Siviglia nell'Andalusia in Spagna; scrisse molte opere erudite, convocò e presiedette vari concili e si adoperò sapientemente per il bene della fede cattolica e per l'osservanza della disciplina ecclesiastica.
Dai «Libri delle sentenze» di sant'Isidoro, vescovo
La preghiera ci purifica, la lettura ci istruisce. Usiamo dell'una e dell'altra, se è possibile, perché tutte e due sono cose buone. Se ciò tuttavia non fosse possibile, è meglio pregare che leggere. Chi vuol stare sempre con Dio, deve pregare e leggere continuamente. Quando preghiamo, parliamo con Dio stesso; quando invece leggiamo è Dio che parla a noi.
Ogni progresso viene dalla lettura e dalla meditazione. Doppio è il vantaggio che riceviamo dalla lettura della Sacra Scrittura. Essa illumina il nostro intelletto, e conduce l'uomo all'amore di Dio, dopo di averlo strappato alle vanità del mondo.
Doppio è anche il fine che dobbiamo prefiggerci nella lettura: innanzi tutto cercar di capire il senso della Scrittura, in secondo luogo adoperarci per proclamarla con la maggiore dignità ed efficacia possibile. Chi legge infatti cerca prima di tutto di capire quello che legge. Il bravo lettore non si preoccupa tanto di conoscere quello che legge, quanto piuttosto di metterlo in pratica.
Nessuno può penetrare il senso della Sacra Scrittura, se non la legge con assiduità, secondo quanto sta scritto: Amala e ti porterà in alto; quando l'avrai abbracciata, essa sarà la tua gloria (cfr. Pro 4, 8). Quanto più si è assidui nel leggere la Scrittura, tanto più ricca è l'intelligenza che se ne ha, come avviene per la terra che, quanto più si coltiva, tanto più produce.
Vi sono alcuni che hanno una buona intelligenza, ma trascurano la lettura dei testi sacri, sicché con la loro negligenza dimostrano di disprezzare quello che potrebbero imparare con la lettura. Altri invece avrebbero desiderio di sapere, ma sono impediti dalla loro impreparazione.
Come chi è tardo di intelletto riesce col suo impegno a raccogliere il frutto della sua diligenza nello studio, così chi trascura il dono dell'intelletto che Dio gli ha dato, si rende reo di condanna, perché disprezza un dono ricevuto e lo lascia infruttuoso.
Se la dottrina non è sostenuta dalla grazia non giunge sino al cuore anche se entra nelle orecchie. Fa strepito al di fuori, ma nulla giova alla nostra anima.
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