preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
Per chi non comprende, alla luce della fede, i significati reconditi dell'invito di Cristo a mangiare la sua carne e bere il suo sangue, gli interrogativi diventano pressanti ed ogni spiegazione risulterebbe inutile, paradossale e scandalosa. Gesù però, dinanzi alle discussioni dei soliti Giudei nella sinagoga di Cafàrnao, non intende minimizzare affatto il suo messaggio, anzi lo rende ancora più incalzante: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno». Non c'è più scampo ad equivoci: è questione di vita o di morte; la vita del mondo, la vita di ogni uomo è ormai indissolubilmente legata a quel cibo divino. E non solo la vita presente, ma anche la nostra eternità e la nostra risurrezione dipendono ancora da quell'intima comunione che Cristo vuole stabilire con ognuno di noi. "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui". Dimorare in Dio, essere certi che Cristo vive in noi, deve dunque diventare la suprema aspirazione dell'uomo; il Signore Gesù paragona la comunione che intende stabilire con noi con quella di cui egli stesso gode con il Padre celeste. Si tratta quindi di una comunione piena, di vita, di amore, di condivisione intima e totale. Credo che questo contrasti notevolmente con le nostre comunioni spesso episodiche e fugaci. Anche il nostro linguaggio ci tradisce: noi siamo soliti dire che facciamo la comunione e raramente osiamo esprimere l'impegno cristiano di stare in piena comunione con Cristo in modo stabile, continuo, crescente. Dobbiamo ammettere che siamo ben lungi da quanto Cristo ci propone in campo eucaristico: la dottrina che l'evangelista Giovanni ci va offrendo in questi giorni ci rende sempre più consapevoli di come e quanto sia stata svilita nei suoi valori essenziale e vitali. Forse proprio in questa mutilazione dottrinale e pratica troviamo la spiegazione delle numerose e prolungate assenze di tanti cristiani dalle nostre Messe. Non siamo ancora riusciti a far comprendere l'intimo legame che Gesù voleva stabilire con la vita di ciascuno di noi. È ancora, per nostra colpa, assente dal mondo, dalle nostre vicende, dalle nostre storie... è ancora troppo chiuso nei tabernacoli o relegato nei cieli lontani!
Disse un anziano: «L'umiltà non è uno dei piatti del festino, ma il condimento che insaporisce tutti i piatti».
CHE NESSUNO PARLI DOPO COMPIETA In ogni momento i monaci devono coltivare il silenzio, ma soprattutto nelle ore notturne. Perciò in tutti i tempi, sia nei giorni di digiuno che nei giorni del doppio pasto, ci si regoli così: se è un giorno in cui c'è il pranzo, i fratelli, appena alzatisi da cena, si riuniscano tutti insieme e uno legga le Collazioni o le Vite dei Padri o altro testo che edifichi chi ascolta; ma non i primi sette libri della Bibbia o i libri dei Re, perché alle menti deboli non sarebbe utile udire a tale ora queste parti della Scrittura, le quali tuttavia si devono leggere in altri momenti. Se invece è giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri, fatto un breve intervallo, si riuniscano subito per la lettura delle Collazioni, come abbiamo detto sopra; se ne leggano quattro o cinque fogli o quanto l'ora permette, per dare modo a tutti, durante il tempo della lettura, di radunarsi insieme, anche quelli occupati in qualche ufficio loro assegnato.
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