preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
La Liturgia della Parola di questa domenica inizia con un grido di dolore verso Dio da parte del profeta Abacuc perché all'interno del popolo d'Israele dilagano violenze e contese, la legge è trasgredita, il diritto non rispettato. La prima risposta di Dio, non riportata dal testo di oggi, è l'annuncio che verranno i Caldei a punire gli empi (Ab 1,6). A tale risposta il profeta si agita ancora di più, chiedendo conto a Dio del suo operato; sì, Giuda ha peccato ma perché Dio ha scelto un popolo malvagio, pagano che governa opprimendo e seminando morte, per esercitare la sua vendetta? In fondo Giuda rimane sempre un giusto che ama l'unico Dio.
Abacuc attende con impazienza che il Signore dia una spiegazione a tutti i suoi perché e intervenga per porre fine all'oppressione caldea. Gli interrogativi del profeta sono anche i nostri, gli interrogativi di tutti coloro che odiano la violenza e l'ingiustizia. L'ansia di Abucuc si placa nella risposta di Dio: "Eco soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede (Ab 2,4). E' un invito alla pazienza, alla fiducia, a credere che il giusto non sarà dimenticato, ma sopravvivrà mentre l'empio soccomberà. Jahveh si impegna a realizzare questa sua promessa, l'uomo da parte sua deve camminare umilmente con il suo Dio, obbedire alle sue leggi, essergli fedele nella certezza che Dio non può ingannarlo. Il giusto non è colui che non pecca mai, ma è colui che, dopo aver peccato, appoggiandosi alla misericordia di Dio, si rialza riprendendo il cammino giustificato, perdonato.
Nessuno può salvarsi da solo, nessuno può risolvere il problema del male, se non in Gesù Cristo che in sé ha distrutto tutto ciò che per noi è fardello pesante che ci schiaccia; questa è la giustizia di Dio, che ci rende giusti: la misericordia.
Viviamo dunque di fede, gettando in Dio ogni nostro affanno e accogliamo l'invito del salmista a vivere la vita come una festa, anche quando siamo nel buio, perché Cristo ha vinto la morte.
Solo così, ben radicati in Cristo possiamo accogliere l'esortazione dell'Apostolo Paolo a soffrire per il Vangelo; la fedeltà alla vocazione, al Vangelo, spesso porta con sé rinunce, sofferenze, insuccessi. Poiché però ogni carisma è un dono di Dio non bisogna viverlo ansiosamente come se tutto dipendesse da noi, né trascurarlo come se tutto dipendesse da Dio ma alimentarlo come fuoco sempre vivo, credendo fermamente che lo Spirito Santo sarà capace di trasformare la nostra debolezza in forza, amore, saggezza a servizio del bene della comunità.
A questo punto come agli apostoli, anche a noi viene spontaneo chiedere al Signore di aumentare la nostra fede, non certo per sradicare gli alberi e piantarli nel mare ma perché la sua Parola seminata nei nostri cuori nel cuore di ogni uomo possa far nascere e crescere il frutto buono che è Gesù nostro Signore e perché altri possano gustarne la dolcezza.
Nasce quindi, spontaneo nel nostro cuore una sincera gratitudine perché attraverso la nostra inadeguatezza e inefficacia Gesù, continua a camminare nella storia, portando a maturazione i semi di santità da Lui piantati, e preoccupandosi incessantemente di risvegliare in noi stessi la fede, di difenderla e di aumentarla.
Sì, Lui sta in mezzo a noi come colui che serve e per noi non c'è avventura più bella che essere come lui: servi che non appartengono più a se stessi ma al proprio Signore che per noi ha donato la vita.
Il Signore doni a tutti la gioia di dimenticarci, di non avanzar nessun diritto nei suoi confronti e di cercare solo la sua gloria e il suo Regno, secondo quanto afferma Sant'Agostino: "Noi, fratelli, se viviamo col continuo desiderio di appartenere a Lui e perseveriamo in esso fino alla fine, giungeremo alla visione e saremo ricolmi di gioia (dal commento sui salmi di S. Agostino).
L'abba Antonio predisse all'abba Amun: «Tu farai molti progressi nel timore di Dio». Poi lo condusse fuori dalla cella e gli mostrò una pietra: «Mettiti a ingiuriare questa pietra», gli disse, «e colpiscila senza smettere». Quando Amun ebbe terminato, sant'Antonio domandò se la pietra gli avesse risposto qualcosa. «No», disse Amun. «Ebbene! anche tu», aggiunse l'anziano, «devi raggiungere questa perfezione».
SE I MONACI POSSONO AVERE ALCUNCHÉ DI PROPRIO Nel monastero bisogna estirpare fin dalle radici soprattutto questo vizio: che nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate; né avere alcunché di proprio, nulla nel modo più assoluto: né libro, né tavolette, né stilo, proprio niente insomma; dal momento che ai monaci non è lecito disporre nemmeno del proprio corpo e della propria volontà. Tutto il necessario invece lo devono sperare dal padre del monastero; e non sia lecito avere alcuna cosa che l'abate non abbia data o permessa. Tutto sia comune a tutti - come sta scritto - e nessuno dica o ritenga qualcosa come sua proprietà (At 4,32). E se si scoprirà un fratello che asseconda questo pessimo vizio sia ripreso una prima e una seconda volta; se non si corregge, sia sottoposto alla disciplina regolare.
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