preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
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] Il Gesù di Matteo parla il linguaggio attribuito a Mosè in Dt 32, 5: generazione tortuosa e perversa". A chi sono rivolte queste parole? Non al padre, il cui problema di scarsa fede non ha parte nella versione di Matteo; non alle folle, che sono completamente fuori dall'azione. In realtà il rimprovero è proprio rivolto ai discepoli, che in questi capitoli si sono mostrati in varie occasioni ben più lenti a credere (14, 30-31; 15, 16; 16, 9-11), in particolare da quando Gesù ha annunziato loro il destino sofferente del Figlio dell'uomo (16, 23; 17, 4). Ma non dobbiamo dimenticare che Matteo vuol ritrarre la stanchezza di Gesù alla luce dell'altra grande figura protagonista della trasfigurazione, quella di Mosè: "Fino a quando sopporterò io questa comunità malvagia che mormora contro di me?" (Nm 14, 27). In altre parole, vuol farci vedere come il destino di Gesù rifletta quello del grande maestro di Israele. Sul monte, la voce celeste, riferendosi a Dt 18, aveva detto ai discepoli: "Ascoltatelo!". Ogni mancanza di fede da parte dei discepoli, è dovuta a questa scarsa obbedienza nei confronti di Gesù. Per questo essi non hanno potuto scacciare il demonio, non sono stati capaci di guarire il ragazzo. Perché la loro fede è ancora piccola (oligopistía). Avessero la fede quanto un granello di senape, sposterebbero le montagne (v. 20). Non è, il granello di senape, "il più piccolo di tutti i semi" (v. 13, 32)? È sufficiente che essi abbiano una fede così piccola? Ma noi dobbiamo tenere a mente la parabola a cui Matteo intenzionalmente ci rinvia. Il granello di senape, inizialmente, è una realtà infinitesima, ma è una realtà in costante crescita, in continuo sviluppo, fino a diventare un grande albero. Occorre che anche la fede dei discepoli sia così: una realtà dinamica, in progressione costante. Solo così, da umili inizi, può arrivare a produrre grandi cose. Perché "nulla è impossibile a Dio" (Gen 18, 14) e quindi "nulla è impossibile a chi crede": cf. Mc 9, 23 che Matteo trasporta in chiusura di tutto l'episodio.
(da A. MELLO, Evangelo secondo Matteo, Qiqajon 1995, 311-312)
Io non temo più Dio, lo amo. Perché l'amore caccia il timore.
L'OBBEDIENZA DEI DISCEPOLI Facciamo quel che dice il profeta: «Ho detto: veglierò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua; ho posto un freno alla mia bocca mentre l'empio mi sta dinanzi; sono rimasto in silenzio, mi sono umiliato e ho taciuto anche di cose buone» (Sal 38,2-3 Volg.). Qui il profeta ci mostra che, se per amore del silenzio dobbiamo alle volte astenerci dai discorsi buoni, tanto più per la pena del peccato, dobbiamo evitare quelli cattivi. Pertanto, per custodire la gravità del silenzio, ai discepoli perfetti si conceda raramente il permesso di parlare, fosse pure di argomenti buoni, santi ed edificanti; poiché sta scritto: «Nel molto parlare non eviterai il peccato» (Pr 10,19); e altrove: «Morte e vita sono in potere della lingua» (Pr 18,21).
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