preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
I consolatori, venuti da Gerusalemme, per partecipare al lutto, nel corso del racconto vengono associati a Maria (vv. 31.33.45); si accenna però ad essi molto prima (v. 19), preparando in tal modo la presenza di testimoni, necessaria per dire il duplice effetto che avrà il miracolo. Il termine «giudei» con cui sono designati, a prima vista, sorprende; potrebbe richiamare fin dall'arrivo a Betania il rischio che Gesù corra in Giudea.
Le due sorelle, che insieme hanno fatto ricorso al «Signore» e che esprimeranno il loro dolore con le stesse parole (vv. 21.32), si comportano in maniera opposta di fronte al mistero della morte. Marta corre subito verso Gesù; Maria rimane in casa, «seduta», come si conviene ad una donna in lutto. Marta esprime la sua fiducia e poi, magnificamente, la sua fede; Maria ai piedi di Gesù, rimane accasciata sotto il peso del dolore. L'una afferma la speranza nella vita che non finisce, l'altra non sente altro che la separazione ormai avvenuta. A questi atteggiamenti contrastanti corrispondono reazioni differenti di Gesù, attraverso le quali traspare il suo personale coinvolgimento di fronte alla morte.
Lasciando i consolatori, Marta va incontro a Gesù fuori dal villaggio. Dando sfogo al suo dolore, collega la perdita del fratello all'assenza di Gesù, ma non come un rimprovero: essa si rivolge al «Signore», la cui presenza preserva dalla morte. E in realtà, senza fermarsi, aggiunge che anche ora Gesù può ottenere tutto da Dio, insinuando così, vagamente, che se egli volesse, un miracolo è ancora possibile, non come un atto magico, ma come opera di Dio. La convinzione di Marta («io so») che Dio non rifiuta nulla a Gesù, si allinea prima di ogni ulteriore dimostrazione, a quella del cieco-nato divenuto vedente; Gesù stesso lo dirà in altri termini nella sua preghiera dinanzi alla tomba (vv. 41s.).
Gesù risponde a Marta che suo fratello risusciterà (anístêmi) in un futuro indeterminato. Marta, sempre senza esitazione («io so»), lo interpreta nel senso della risurrezione dei morti nell'ultimo giorno, secondo la fede del giudaismo ortodosso. Non è una semplice acquiescenza da parte sua a ciò che ha detto il Maestro, ma l'affermazione di una certezza. Tuttavia, non vuole forse indurre Gesù a precisare ulteriormente? Egli risponde con un Egố eimi di rivelazione: Io sono la Risurrezione e la Vita e completa questa affermazione con due sentenze che, esplicitandola, richiedono la fede in lui, come quando aveva proclamato che egli era il Pane di vita. Qui le due sentenze oppongono «vivere» a «morire»: Colui che crede in me, anche se morto, vivrà; e chiunque vive e crede in me è impossibile che muoia per sempre.
Nel primo stico, «morire» ha il senso ovvio del trapasso e «vivere» ha il senso forte della vita eterna; nel secondo «morire» (per sempre) ha il senso forte della perdizione definitiva, della privazione per sempre della vita divina, mentre «vivere», che precede «credere», sembra riferirsi alla situazione di chi è ancora in questo mondo. Le due sentenze sono parallele quanto al senso: il credente è destinato alla vita che non ha termine.
(da X. LÉON-DUFOUR, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, II, San Paolo 2002, 519-522)
Chiese ad Evagrio: Che vita dobbo condurre? Rispose: Considera una giara di vino che per lungo tempo è rimasta a riposare, allo stesso posto, senza essere rimossa: che vino chiaro, decantato, profumato, essa prepara! Ma se è trasportata qua e là, prepara un vino torbido, denso, che ha il sapore della feccia. Paragona te stesso a questa giara, e fa una esperienza utile.
QUALI SONO GLI STRUMENTI DELLE BUONE OPERE Non essere superbo. Non dedito al vino. Non mangione. Non dormiglione. Non pigro. Non ingiurioso. Non maldicente. Riporre in Dio la propria speranza. Quando si scorge in sé qualcosa di buono, lo si attribuisca a Dio e non a se stesso. Il male invece si sia convinti che è opera propria e lo si imputi a sé.
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