preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
Timoteo e Tito, discepoli e collaboratori dell'apostolo Paolo, furono a capo, l'uno della chiesa di Efeso, l'altro di quella di Creta. Timoteo, nato a Listri, dove Paolo lo incontrò durante il primo viaggio e fu tra i primi a convertirsi al vangelo, si applicò fin dall'infanzia allo studio delle Sacre Scritture e all'esercizio di ogni virtù. E' l'immagine del discepolo esemplare. Da questo momento la sua vita corse sul binario paolino. Tra il 63 e il 66, quando ricevette la prima lettera inviatagli da Paolo, fu presente al martirio di Paolo, poi tornò definitivamente alla sede di Efeso, dove, secondo una tardiva tradizione, morì martire nel 97.
Il secondo Tito fedele collaboratore di Paolo, Tito, nato ad Antiochia da genitori pagani, fu convertito e battezzato da Paolo, che ammirato per la virtù nel neo-battezzato, lo scelse per suo compagno e coadiutore nel ministero dell'evangelizzazione dei Gentili. A Creta, ricevette la lettera di Paolo e questi lo mandò ad evangelizzare a Dalmazia, dove tuttora il suo culto è molto diffuso. Morì probabilmente a Creta, in età molto avanzata.
Memoria dei santi Timoteo e Tito, vescovi, che, discepdli di san Paolo Apostolo e suoi collaboratori nel ministero, furono l'uno a capo della Chiesa di Efeso, l'altro in quella di Creta; ad essi sono indirizzate le Lettere dalle sapienti raccomandazioni per l'istruzione dei pastori e dei fedeli.
Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
Paolo se ne stava nel carcere come se stesse in cielo e riceveva percosse e ferite più volentieri di coloro che ricevono il palio nelle gare: amava i dolori non meno dei premi, perché stimava gli stessi dolori come fossero ricompense; perciò li chiamava anche una grazia divina. Ma stà bene attento in qual senso lo diceva: Certo era un premio essere sciolto dal corpo ed essere con Cristo (cfr. Fil 1, 23), mentre restava nel corpo era una lotta continua; tuttavia per amore di Cristo rimandava il premio per poter combattere: cosa che giudicava ancor più necessaria. L'essere separato da Cristo costituiva per lui lotta e dolore, anzi assai più che lotta e dolore. Essere con Cristo era l'unico premio al di sopra di ogni cosa. Paolo per amore di Cristo preferì la prima cosa alla seconda.
Certamente qui qualcuno potrebbe obiettare che Paolo riteneva tutte queste realtà soavi per amore di Cristo. Certo, anch'io ammetto questo, perché quelle cose che per noi sono fonti di tristezza, per lui erano invece fonte di grandissimo piacere. Ma perché io ricordo i pericoli e i travagli? Poiché egli si trovava in grandissima afflizione e per questo diceva: «Chi é debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo che io non ne frema?» (2 Cor 11, 29). Ora, vi prego, non ammiriamo soltanto, ma anche imitiamo questo esempio così magnifico di virtù. Solo così infatti potremo essere partecipi dei suoi trionfi. Se qualcuno si meraviglia perché abbiamo parlato così, cioè che chiunque avrà i meriti di Paolo avrà anche i medesimi premi, può ascoltare lo stesso Apostolo che dice: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2 Tm 4, 7-8). Puoi vedere chiaramente come chiama tutti alla partecipazione della medesima gloria.
Ora, poiché viene presentata a tutti la medesima corona di gloria, cerchiamo tutti di diventare degni di quei beni che sono stati promessi. Non dobbiamo inoltre considerare in lui solamente la grandezza e la sublimità delle virtù e la tempra forte e decisa del suo animo, per la quale ha meritato di arrivare ad una gloria così grande, ma anche la comunanza di natura, per cui egli é come noi in tutto. Così anche le cose assai difficili ci sembreranno facili e leggere e, affaticandoti in questo tempo così breve, porteremo quella corona incorruttibile ed immortale, per grazia e misericordia del Signore nostro Gesù Cristo, a cui appartiene la gloria e la potenza ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.
La nascita di Roberto avvenne con tutta probabilità tra gli anni 1028-1029. Ancora adolescente entrò nell'abbazia di S. Pietro di Celle, dove nel 1050 ca. fu nominato priore claustrale. Stimato per la santità della vita, probabilmente dopo il 1068, i monaci di S. Michele di Tonnerre lo vollero loro abate, ma egli li lasciò presto perché riluttanti ai suoi tentativi di riforma. Nel 1073 fu richiesto dai monaci di S. Aigulfo, che erano rimasti senza priore. Con lui la fondazione dell'abbazia di Molesme avvenne alla fine del 1075. Grandissima fu la sua devozione alla Madonna. Spirò nel 1111, nella serenità del Signore, dopo tante fatiche e lotte per un ideale di santità monastica che avrà il suo trionfo in Cistercium, ma che lui, il fondatore, non poté vedere.
L'Abate Roberto era assecondato da alcuni fedeli animati da vero zelo, tra i quali S. Alberico (+1108) che nominò priore claustrale e, a sua volta, fiancheggiato dal monaco inglese S. Stefano Harding (+1134). Tutti due furono i suoi seguaci nella guida di tanti monasteri e trascurarono tante difficoltà insieme.
A Cîteaux in Burgundia, nell'odierna Francia, santo Stefano Harding, abate: giunto da Molesme insieme ad altri monaci, resse questo celebre cenobio, istituendovi i fratelli laici e accogliendo in esso il famoso Bernardo con trenta suoi compagni; fondò dodici monasteri, che vincolò tra loro con la Carta della Carità, affinché non esistesse tra i monaci discordia alcuna e tutti vivessero sotto il medesimo dettame della carità, sotto la stessa regola e secondo consuetudini simili.
Dal «Discorso sull'amore di Dio» di sant'Elredo, abate.
Signore Gesù, quanta soavità si trova nell'amarti, e insieme con la soavità quanta tranquillità e con la tranquillità quanta sicurezza! Chi sceglie di amarti non resta deluso poiché niente si pub amare meglio e più fruttuosamente di te; e questa speranza non viene mai meno. Non si deve temere di eccedere nella misura, poiché nell'amarti non e prescritta nessuna misura. Non c'è da paventare la morte, che rapisce le amicizie del mondo, poiché la vita non può morire. Nell'amarti non si deve temere di ricevere qualche offesa, poiché non ce ne sono, se non si desidera che l'amore. Non s'insinua il minimo sospetto, poiché tu giudichi in base alla testimonianza della coscienza che ama. Questa e la soavità che esclude il timore. Qui e la pace che placa l'ira. Qui e la sicurezza, che disprezza il mondo.
Se senti tutto questo, anima mia, sii come un vaso infranto fino a che, abbandonata te stessa e tutta passata in Dio, tu non sappia più vivere e morire se non per colui che per te e morto e risuscitato. Chi mi concederà d'inebriarmi con questa bevanda salutare, di colmarmi l'anima di questo stupore, di assopirmi in questo soavissimo letargo, per cui più non cerchi ciò ch'è mio, ma quel che e di Gesù Cristo, amando il Signore mio Dio con tutto il cuore, con tutta 1' anima e tutte le forze, e il mio prossimo come me stesso, non cercando quanto e utile a me, ma all'altro?
O Verbo divorante, ardente di giustizia, Verbo di carità, Verbo di ogni preferenze, Verbo di dolcezza.
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