Liturgia della Settimana

preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)

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Commento alle Letture

Domenica 17 aprile 2016

Le mie pecore non andranno mai perdute.

L'immagine del pastore e delle pecore è frequente nella bibbia sin dall'antico testamento. Nei Primo libro dei re, per descrivere uno stato di desolazione e di sbandamento del popolo eletto leggiamo: «Vedo tutti gli Israeliti vagare sui monti come pecore senza pastore» e il profeta Zaccarìa in una situazione analoga dice: «Vanno vagando come pecore, sono oppressi, perché senza pastore». Un salmista invece, volendo predire la sorte di coloro che confidano in se stessi e non nel Signore, che si affidano al proprio orgoglio, così si esprime: «Come pecore sono avviati agli inferi, sarà loro pastore la morte». Nel libro di Giuditta, nel suo primo incontro con Oloferne, leggiamo: «Tu li potrai condurre via come pecore senza pastore e nemmeno un cane abbaierà davanti a te». Gesù ricorre spesso a queste stesse immagini, molto familiari ai suoi ascoltatori. Egli si commuove dinanzi alla folla: «Perché erano come pecore senza pastore». Anche nel giudizio finale riappare la figura del pastore e delle pecore: «E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri». Gesù oggi si proclama pastore, che conosce le sue pecore. Queste a loro volta conoscono la voce del pastore buono, è per loro una voce amica, è la loro guida ai pascoli migliori, si sentono da lui protette. Si instaura una relazione di amicizia, un autentico rapporto di amore. I presupposti sono: la docilità nell'ascolto della voce divina da parte delle pecore e la cura amorosa da parte del pastore; una cura che significa per Cristo il dono della vita. Siamo così nelle mani di Dio e nessuno può rapirci dalle sue mani perché dice Gesù: «Io e il Padre siamo una cosa sola». Il dono finale è per noi la vita eterna, l'approdo alla mèta ultima della nostra vita. È il frutto della redenzione, è la nostra Pasqua da vivere nel tempo e attendere nell'eternità.


Apoftegmi - Detti dei Padri

Un fratello era assalito da molto tempo dal demone dell'impurità e malgrado molti sforzi non riusciva a sbarazzarsene. Una volta, mentre era alla Sinassi, si sentì come d'abitudine tormentato dalla passione; decise dunque di trionfare sulla macchinazione del demonio e di chiedere ai fratelli di pregare per lui affinché fosse liberato. E, sprezzando ogni vergogna, si mise nudo davanti a tutti i fratelli e mostrò l'azione di Satana: «Pregate per me, padri e fratelli miei», disse, «perché sono quattordici anni che sono così combattuto»; e subito il combattimento si allontanò da lui, grazie all'umiltà che aveva mostrato.


Dalla Regola del nostro Santo Padre Benedetto

IN QUALI ORE I FRATELLI DEVONO PRENDERE I PASTI

Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino a sesta e cenino la sera. Da Pentecoste poi per tutta l'estate, se i monaci non devono attendere ai lavori dei campi e se l'eccessivo calore estivo non lo impedisce, il mercoledì e il venerdì digiunino fino a nona; negli altri giorni pranzino a sesta. Ma se avessero lavori nei campi o la calura estiva fosse opprimente, si mantenga il pranzo a sesta anche in quei due giorni; e ciò sia rimesso al provvido giudizio dell'abate; egli appunto deve regolare e disporre le cose in modo che le anime si salvino e quello che i fratelli fanno, lo facciano senza alcun fondato motivo di mormorazione.


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