preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
"Non è bene che l'uomo sia solo". Così esordisce la prima lettura di questa liturgia. L'uomo presentato nella sua solitudine e nella sua diversità dalle altre creatura, trova la comunione solo in un essere che gli è simile e, in questo ritrovarsi l'uno nell'altro reciprocamente, si rigenerano. Il matrimonio è un sacramento che affonda le sue radici nell'amore stesso di Dio. Essere coppia quindi non significa essere in due, ma essere una realtà nuova. Alla domanda dei farisei se "è lecito a un marito il ripudio della propria moglie", Gesù rimanda a Mosè. Dunque la legge del divorzio esisteva, ma esisteva "per la durezza del vostro cuore". Così dicendo, Gesù lega la legge più ad una condizione viziata dagli uomini che da Mosè. All'inizio non era così, afferma Gesù. "Dio li creò maschio e femmina per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola". Li ha creati diversi, ma complementari, capaci di amare, incapaci di autosufficienza, con diritti e doveri uguali. Dio sogna per la prima coppia una unità assoluta, come nella comunione trinitaria. Quando all'orizzonte dell'uomo solitario siamo sempre soli - apparve la donna, l'uomo si esprime in un grido di gioia: "Questa sì, è vita della mia vita". Il disegno di Dio è volto a tirar fuori il meglio che c'è nell'uomo e nella donna. Egli desidera far sentire il suo amore per ciascuno di loro, affinché loro stessi riproducano reciprocamente quell'eterno amore di cui sono oggetto. Lo splendore della vocazione matrimoniale, come donazione d'amore, dovrebbe risanare le tante ferite inferte dalla debolezza e dalla fragilità della condizione umana. I veri vincoli che non si spezzano sono quelli che nascono dall'amore e nell'amore si diffondono. Il racconto evangelico prosegue presentando un incontro di Gesù con i bambini. All'atteggiamento insofferente e ostile dei discepoli, fa riscontro quello accogliente di Gesù, il quale riconferma che l'accoglienza del regno di Dio è riservata a loro.
Se fai il tuo lavoro manuale nella cella e viene l'ora della preghiera, non dire: «Finirò i miei ramoscelli e il piccolo cesto e dopo mi alzerò», ma alzati subito e rendi a Dio il debito della preghiera; diversamente prenderai a poco a poco l'abitudine di trascurare la tua preghiera e il tuo Uffizio e la tua anima diventerà deserta di ogni opera spirituale e corporale. Poiché è dall'alba che si mostra la tua volontà.
I FRATELLI INFERMI La cura degli infermi è da mettere prima di tutto e al di sopra di tutto, in modo che ad essi si serva davvero come a Cristo in persona, perché egli ha detto: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36); e ancora: «Quel che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). Gli infermi, da parte loro, devono essere consapevoli che sono serviti in onore di Dio e non affliggere con eccessive pretese i fratelli che li assistono; tuttavia essi devono essere in ogni caso sopportati con pazienza, perché attraverso di loro si acquista una maggiore ricompensa. L'abate pertanto abbia la massima premura che i malati non siano trascurati in nessun modo.
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