preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
È la domanda che Gesù rivolge agli scribi. La domanda nasce dalla situazione nella quale è posto lo stesso Gesù e si riferisce alle Sue azioni. Gli è posto davanti un paralitico; Gesù per prima cosa gli perdona i peccati e poi, sulla scia di questa precisa domanda, lo guarisce. Ecco allora la doppia azione di Gesù e sulla quale Egli formula il suo quesito: perdona e guarisce. Perdona per guarire e guarisce perché il perdono sia poi segno di una vera conversione. La guarigione indica la possibilità, per il paralitico, di alzarsi e camminare per una strada nuova e diversa. Gesù lo libera da quei vincoli che lo legavano al lettuccio; lo stesso lettuccio diventa simbolo di una libertà riacquistata. Allora cosa è più facile? Perdonare o guarire? Gli scribi intendo bene che il perdono, al quale si riferisce Gesù, proviene solo da Dio stesso; mentre la guarigione miracolosa può essere operata in nome di Dio. Gli scribi dovrebbero conoscere la risposta; loro stessi hanno capito che Gesù si è voluto proclamare Dio con il perdonare i peccati a quel povero paralitico immobilizzato sul lettuccio. Gli scribi hanno rovesciato il significato che Gesù ha voluto dare alla sua azione. Infatti per loro la guarigione interiore, non visibile, è in vista della guarigione fisica e visibile. Per Gesù è esattamente l'opposto: la guarigione fisica, anch'essa importante, è in vista della guarigione interiore e spirituale. Quello che manca agli scribi è la fede: cioè proprio ciò che unisce il perdono di Gesù ed il miracolo della guarigione. Lo sguardo di Gesù, che lo spinge al perdono ed alla guarigione è proprio la fede. Gesù guarda prima di tutto alla fede di quei quattro che si industriano perché il paralitico gli si possa mettere davanti; poi guarda alla fede del paralitico stesso. Gesù si preoccupa del vero bene e per questo agisce. L'insegnamento per noi può provenire sia dalla figura di quei quattro che si preoccupano della salute del paralitico e sia dal miracolo stesso di Gesù. La fede non è una faccenda privata, un qualcosa che riguarda in maniera esclusiva il nostro rapporto con Dio. Anzi. La fede è un dono che deve essere condiviso, che ci apre gli occhi verso le necessità degli altri. Può darsi che dall'intensità della nostra fede dipenda la salvezza di altri. La fede è quindi responsabilità e condivisione. La nostra sollecitudine per chi ha bisogno del nostro aiuto è segno di fede ed alimenta anche la nostra fede. La guarigione del paralitico, poi, ci spinga ad una domanda: cosa, nella vita, veramente ci tiene legati al nostro lettuccio? La malattia fisica? Talvolta, sì; ma quante volte, invece è il nostro spirito ad essere legato ed ha necessità di essere liberato... Gesù è il medico vero per le nostre malattie; a Lui possiamo e dobbiamo rivolgerci con fiducia e con fede.
«Abba Poemen disse: "Conosco un fratello a Scete che per tre anni digiunò di due giorni in due giorni, tuttavia non riuscì a vincere. Quando però lasciò stare il digiuno per due giorni interi e cominciò a digiunare solo fino a sera, ma con discernimento, allora riuscì a vincere". Quindi mi disse abba Poemen: "Mangia senza mangiare, bevi senza bere, dormi senza dormire, agisci con te stesso con discernimento, e troverai riposo"».
L'UMILTÀ Il sesto gradino dell'umiltà si sale quando il monaco si accontenta delle cose più povere e spregevoli e in ogni incarico che gli viene affidato si considera un operaio cattivo e indegno, facendo proprie le parole del profeta: «Sono stato ridotto a nulla e sono diventato uno stolto; davanti a te stavo come una bestia: ma io sono sempre con te» (Sal 72,22-23a Volg.).
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