preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
Il secondo annunzio ha tutti i requisiti per essere considerato come il più antico e tale da essere attribuibile allo stesso Gesù (ipsissima vox Jesu). Dal punto di vista esegetico, invece, l'osservazione più pertinente l'ho trovata in Green: «Questa predizione diversamente dalle altre, non fa alcuna allusione al ruolo svolto nella passione dalle autorità giudaiche. Collocandola proprio qui, Matteo può forse alludere al fatto che vi sono altri modi di tradire Gesù, oltre a quello che lo ha effettivamente condotto alla morte». Infatti Matteo ha cambiato la reazione dei discepoli a questo secondo annunzio: essa non è più di incomprensione, come in Mc 9, 32, bensì di grande tristezza, la stessa tristezza che essi proveranno all'annunzio del traditore nell'ultima cena: "ed essi, molto rattristati, cominciarono a dirgli uno per uno: Sono forse io Signore?" (26, 22).
Il viaggio attraverso la Galilea si conclude nella casa di Pietro, a Cafarnao, dove evidentemente c'era un banco delle tasse, dal momento che vi era impegnato lo stesso Matteo (9, 9). [
] Alla domanda degli esattori, Pietro risponde che Gesù paga l'imposta. Punto e basta: la cosa non sembra sollevare particolari problemi. Il problema lo suscita invece Gesù "in casa" con una parabola. I re della terra non esigono tasse né imposte dai loro figli, tanto meno il Re dell'universo. Per "figli" in questo contesto, non si deve pensare solamente ai figli legittimi o a quelli naturali, ma a tutti i membri della famiglia regale, comprendente servitori e funzionari. Essi sono "liberi" (eleútheroi, un aggettivo poco ebraico, e poco familiare agli evangelisti sinottici: si trova solo questa volta in Matteo), perché partecipano per estensione alle prerogative del re. Il paragone dovrebbe voler implicare che anche i discepoli di Gesù in quanto familiari del Figlio e impiegati al suo servizio, sono esenti dal tributo per la casa di suo Padre.
Ma chi è che Gesù non vuole "scandalizzare"? [
] Gesù confida a Pietro, il capo dei dodici, la preoccupazione di non scandalizzare gli altri discepoli, che evidentemente sono meno "liberi" di entrambi. [
] Direi che è proprio questa la "punta" della parabola: la preoccupazione pastorale di non scandalizzare i più deboli, una lezione forse non molto diversa da quella di Paolo circa gli idolotiti. Essendo figli di Dio, familiari di Gesù il Messia, noi siamo liberi, occorre però badare che la nostra libertà non diventi occasione di caduta per i deboli (cf 1Cor 8, 9). E coloro che maggiormente devono essere preoccupati di non scandalizzare sono proprio i più forti, le guide, i responsabili come Pietro. La parabola diventa così un ottimo ponte di collegamento con il discorso ecclesiale del capitolo seguente.
(da A. MELLO, Evangelo secondo Matteo, Qiqajon 1995, 312-316)
"Un fratello chiese ad abba Arsenio di dirgli una parola. L'anziano gli disse: «Lotta con tutte le tue forze perché la tua attività interiore sia secondo Dio e così vincerai le passioni esteriori».
L'UMILTÀ La divina Scrittura, fratelli, ci grida: «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11). E con questa affermazione vuol farci capire che ogni esaltazione è una specie di superbia; cosa da cui il profeta dichiara di guardarsi quando dice: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze» (Sal 130,1). E allora? «Se non nutro sentimenti di umiltà ma esalto il mio cuore, tu mi tratterai come un bambino svezzato dal seno di sua madre» (Sal 130,2 Volg.).
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