preparata dai giovani monaci del monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
Il serpente che Mosè innalzò su una croce nel deserto preservava gli ebrei erranti, dal veleno delle serpi, da cui venivano morsi durante il loro lungo peregrinare. Era un segno profetico della croce di Cristo. Egli afferma: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna". Ci rassicura così che il fine ultimo della sua croce non è la passione e la morte e neanche il buio di un sepolcro, ma la vita, da intendere come risurrezione di Cristo e la beatitudine eterna per tutti noi. Questo è un ammonimento di vitale importanza per la nostra esistenza: significa che anche le nostre passioni, anche le nostre croci, anche le sofferenze nelle sue molteplici manifestazioni, anche gli eventi di questi giorni, non possiamo e non dobbiamo più leggerli soltanto nella loro cruda e sconfortante realtà, ma come la passione dell'umanità che è invitata a salire la via dura del calvario con tutto il peso del peccato, senza mai perdere di vista l'approdo finale a cui Cristo ci vuole condurre. Dobbiamo solo credere in Lui, nella efficacia della sua opera di salvezza. Dobbiamo costantemente unire la nostra umana sofferenza a quella del Figlio di Dio affinché sia redenta da lui e noi possiamo aspirare legittimamente alla pienezza della vita. Un grandissimo rammarico ci rattrista: dopo secoli di storia spesso assistiamo ancora a due celebrazioni separate e distinte, quella di Cristo Redentore, che incessantemente ripete la sua passione morte e risurrezione e quella degli uomini, che vivono le loro celebrazioni di violenze, di peccato e di morte. I due grandi eventi non hanno ancora trovato il punto di congiunzione e ciò essenzialmente per un peccato di assurda presunzione e forse anche per i limiti che noi stessi abbiamo posto alle nostre celebrazioni, alle nostre Messe. Gesù ha detto: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me". Questa è la sua ferma ed incrollabile volontà. C'è da chiedersi qual è la nostra. Perché non ci lasciamo attirare e ci condanniamo alle nostre pesanti solitudini e alle nostre croci solo di morte senza possibilità di risurrezione? Perché ci condanniamo ancora a celebrare solo morte e distruzioni e ci chiudiamo nel buio dei nostri sepolcri?
Fu domandato a un anziano: «Come avviene che io mi scoraggi senza tregua?». «Perché non hai ancora visto la meta», rispose.
QUALE DEVE ESSERE IL CELLERARIO DEL MONASTERO Come cellerario del monastero sia scelto uno dei membri della comunità che sia saggio, maturo, sobrio, non mangione, non superbo, non turbolento, non insolente, non gretto, non prodigo, ma pieno di timor di Dio e che sia come un padre per tutta la comunità. Abbia cura di tutti; non faccia nulla senza il consenso dell'abate; si attenga agli ordini ricevuti. Non contristi i fratelli; se per caso uno di loro gli chiede qualcosa fuori posto, non lo rattristi respingendolo con disprezzo, ma con buone ragioni e con umiltà dica di no alla sua richiesta inopportuna. Abbia cura della propria anima, memore sempre di quel detto dell'apostolo che chi avrà ben servito si acquisterà un grado onorifico (1 Tm 3,13). Riservi ogni premura con la massima sollecitudine specialmente agli infermi, ai fanciulli, agli ospiti e ai poveri, ben sapendo che di tutti questi dovrà rendere conto nel giorno del giudizio.
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