PresentazioneCi avviciniamo al centro del Mistero, al Mistero della
nostra salvezza. Vorremmo presentare alcune considerazioni che, forse ci
aiuteranno a viverlo in modo più profondo, a chiarire ed approfondire
alcuni aspetti teologici e rituali che celebriamo in questi giorni della
Passione, della Morte/Sepoltura e della Gloriosa Risurrezione del Signore.
Siamo figli della nostra epoca che spesso, invece di cercare
le spiegazioni alle nostre domande spirituali nelle fonti antiche, nella
chiesa antica, ci basiamo piuttosto su una certa religiosità, che
qualche volta ha poco a che fare con lo spirito liturgico e tanto meno con
la sana tradizione della Chiesa. Ecco che motivati da queste riflessioni
abbiamo voluto ripresentare l’argomento del Triduo Sacro per capirne
meglio la portata. Queste note non vogliono essere un lavoro scientifico, ma
piuttosto una riflessione trasversale sul Mistero della nostra
salvezza, racchiuso nelle celebrazioni, che la tradizione della Chiesa
gelosamente ha conservato per venti secoli. Partiremo dal Giovedì santo per arrivare alla Veglia della
Notte santa, anche se forse sarebbe più logico, dal punto di vista dello
sviluppo storico, iniziare da questa celebrazione. Essa è infatti il
centro al quale ruota non solo il Triduo della Pasqua ma tutto l’Anno
liturgico. Giovedì santoIl giorno del Giovedì è uno dei giorni più difficili da
diversi punti di vista. Nella storia non è mai appartenuto al Triduo.
Nell’ultima riforma del Vaticano II è però entrato a farne parte, o
meglio a esserne un’introduzione. Infatti il giovedì appartiene a due
tempi liturgici. Innanzitutto è l’ultimo giorno della Quaresima, con
esso finisce anche il digiuno quaresimale. Con esso però, o meglio con la
Messa In Coena Domini, inizia
anche il Triduo pasquale dei tre giorni «Passionis et Resurrectionis
Domini», che si conclude con i secondi vespri della Domenica di Pasqua.
Abbiamo dunque un triduo, con quattro momenti diversi, che nei libri
liturgici non è molto esplicito. Un altro problema è legato alla Messa crismale abitualmente
celebrata giovedì mattina. La celebrazione, anche se non appartiene al
Triduo stesso è importante in quanto serve a consacrare gli oli necessari
per il Sacramento dell’Iniziazione cristiana e dell’unzione degli
infermi nella Veglia di Pasqua. Dalla storia abbiamo dedotto che questa celebrazione non è
legata in modo fisso a quel giorno. Essa è segnata solo come l’ultima
messa di Quaresima prima della celebrazione della Veglia. Infatti sia
venerdì che sabato sono giorni aliturgici cioè senza la celebrazione di
Eucaristia. Questa prassi viene ancora gelosamente custodita dalle diverse
Chiese. Qui menzioniamo anche il digiuno intrapasquale di questi due
giorni che non è più penitenziale, ma viene legato all’attesa della
risurrezione o attesa escatologica di Cristo nella seconda venuta. I Padri
hanno sottolineato anche un altro aspetto, quello cioè del vangelo:
“Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché,
mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?». E
Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto
mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà
loro tolto e allora digiuneranno” (Mt 9,14-15). Dunque, mentre il
Maestro non c’è più i discepoli digiunano fino alla festa di Pasqua. La Tradizione Romana fino al VII sec. conosce solo la
celebrazione della riconciliazione dei penitenti. Non si trova nessun
accenno alla celebrazione della Coena Domini in quanto solo nella
Notte Santa si celebrerà, come suo culmine, la liturgia eucaristica,
l’Eucaristia di Pasqua, di Cristo Risorto. Nelle altre Chiese abbiamo
alcuni accenni di due messe (ad es. in Agostino). Un certo sviluppo
avviene a partire dal VII sec. quando si celebreranno tre messe: la prima
della riconciliazione dei penitenti, la seconda con la consacrazione degli
oli, verso mezzogiorno, e la terza la sera. È interessante notare che sia
la seconda che la terza Messa non avevano la Liturgia della parola, ma
iniziavano con l’offerta. Il giovedì però abbiamo altri due riti che
pian piano verranno sempre più considerati. Il primo è la lavanda dei
piedi, il secondo, invece, la deposizione e l’adorazione
eucaristica. Il primo proviene dalla Chiesa di Gerusalemme. Le prime
testimonianze si hanno fin dal V sec. Inizialmente esprimeva il mandatum
di Cristo: «affinché come ho fatto io, facciate anche voi.» (Gv 13,15)
– non umiliazione dunque, ma prevalentemente l’amore e il servizio. Il
gesto è molto accentuato nella tradizione monastica in riferimento
all’accoglienza degli ospiti. Nella liturgia invece entra verso il VII
sec. Il concilio di Toledo del 694 lo considera come semi-liturgico. Più
tardi assume un significato diverso, quello cioè di umiliazione di
Cristo. Ambrogio invece lo collega con il battesimo come gesto di
purificazione del cristiano. Qualche studioso però, avanza l’ipostesi,
che, specie nella tradizione giovannea, come sia gesto del battesimo
stesso; ipotesi oggi poco sostenibile. Nella liturgia romana si presenta
con l’arrivo del Pontificale Romano – Germanico, ma non inserito nella
messa bensì nei vespri. Il secondo, e cioè la deposizione del Santissimo e
l’adorazione è assai antico. Ne troviamo menzione ad es. nel Ordo
Romanus Primus. Le specie consacrate rimanenti venivano conservate,
dopo la celebrazione, in un cofanetto apposito nella sacrestia, ma senza
particolari segni di onore. Il giorno della successiva celebrazione,
venivano riportate al pontefice nel presbiterio. Ivi, dopo esser state da
lui adorate per qualche momento, venivano usate per la comunione nella
celebrazione stessa. L’adorazione eucaristica inizia verso XIII sec.
quando Urbano IV estende a tutta la Chiesa la festa del Corpus Domini. Il
tabernacolo provvisorio del Giovedì santo diventa allora un punto focale
della devozione eucaristica. In questo contesto, con l’aggiunta di segni
di tristezza ed emotività, il tabernacolo diventa il sepolcro,
anche se non si è celebrata ancora la morte di Gesù. Sicuramente su ciò
ha influito la perdita del tema della doppia traditio, cioè quella
di Cristo nel sacramento, che si consegna alla Chiesa, e quella di Giuda
che consegna Cristo alla morte. In questo senso forse sarebbe più facile
vedere il collegamento con il mistero della Pasqua. Staccandolo dalla
tradizione si rischia un eccessivo accento dell’adorazione, che falsa la
celebrazione. I riti odierni del giovedì santo sono stati rivisti sia
dalla prima riforma del 1955 che da quella del Vaticano II. La Chiesa
vuole che la messa In coena domini sia concelebrata e con più
solennità. I temi da richiamare all’attenzione dei fedeli sono:
l’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio ministeriale, e il
comandamento dell’amore fraterno. La colletta è stata sostituita.
Quella precedente che parlava della traditio è cambiata con una di
nuova composizione: Sacratissimam, Deus, frequentantibus Caenam…, che
esprime meglio il senso della celebrazione. In questo senso sono state
anche cambiate le letture. La 1Cor 11, 20-32 fu cambiata con un brano
dell’Esodo (12,1-8.11-14) che contiene le prescrizioni per la pasqua
ebraica. Segue il Salmo con il responsorio: “Che cosa renderò al
Signore… alzerò il calice della salvezza”. Esso introduce la seconda
lettura dalla 1Cor 11,23-26. La pericope del vangelo, invece, non è stata
cambiata. Dopo l’omelia, pro opportunitate si procede alla
lavanda dei piedi, che in confronto con l’Ordo precedente è
stata semplificata. L’orazione sulle offerte è stata sostituita, come
anche il prefazio: quello della Croce con uno nuovo dell’Eucaristia. Si
conserva il canto Ubi caritas et amor, oggi proposto per la
processione delle offerte. Così anche il canone con le parti proprie. Non
si parla più dei salmi durante la comunione, che dovevano soddisfare
l’obbligo del vespro. Esso semplicemente non si dice più. Dopo la
celebrazione, il Santissimo sacramento viene portato processionalmente al
tabernacolo provvisorio, dove si potrà svolgere un’adorazione
protratta, ma le rubriche suggeriscono che questa sia fatta senza
particolari solennità. Dopo la celebrazione si compie la spogliazione
dell’altare. Non è più un rito particolare , ma tutto si svolge con
semplicità. Venerdì santoL’odierna celebrazione del Venerdì ha i suoi albori
probabilmente nella celebrazione della Chiesa di Gerusalemme, che era
solita rievocare, con particolari riti, la passione di Cristo e ciò nei
luoghi dove essa era realmente avvenuta. Le testimonianze di Egeria,
probabilmente hanno influito sulla formazione di questa liturgia nelle
Chiese di Roma. Dall’antichità questo giorno è stato aliturgico, cioè
privo della celebrazione eucaristica. Il nucleo della celebrazione, come
apprendiamo dall’Apologia di Giustino, è la celebrazione della
Parola di Dio e, in modo particolare, la Passione secondo Giovanni. Gli Ordines
ci offrono uno schema ben preciso: la prostrazione del vescovo con la
preghiera silenziosa, una prima lettura seguita dal Tratto, e una seconda
lettura, cui seguiva il canto della Passione. Concludevano la celebrazione
le Orazioni solenni, che ri-elaborate, sono presenti nella nostra
celebrazione. Esistevano anche altri schemi come quello, oggi adottato dal
Messale: dopo la prostrazione viene proclamata la colletta che dà inizio
alla Liturgia della Parola. Questa prosegue con le letture e la
proclamazione della Passione secondo Giovanni, e concludersi con le
solenni orazioni della Preghiera universale. Come abbiamo detto, la celebrazione romana ha subito
l’influsso delle tradizioni orientali. Nel VIII-IX sec. i vescovi di
Roma provenivano da quella tradizione. Portano con loro l’Adorazione
della croce. Nell’Urbe si conservava un frammento del legno della Croce.
Esso veniva portato in processione dalla basilica di Santa Croce al
Laterano. La processione veniva guidata dal papa che, scalzo, a mo’ di
vescovi orientali, portava il turibolo (uso sconosciuto nella tradizione
romana) davanti alla reliquia della Santa Croce. Tutto probabilmente si
svolgeva in silenzio, in quanto solo nel tardo VIII sec. abbiamo
testimonianze del canto delle antifone: Ecce lignum crucis… o Crucem
tuam adoramus… di origine bizantina, che accompagnavano
l’adorazione della croce. Nel XII sec. entra nella liturgia romana,
specie sotto l’influsso delle liturgie franco-germaniche, un altro
fattore: la drammatizzazione. Abbiamo molti gesti come ad esempio la
velazione – svelazione della croce fin ora sconosciuta, le processioni
con le statue, con la figura di Cristo morto, ma anche la stessa
celebrazione diventa molto più complessa. Un ruolo che agevola questa
pietà popolare è l’incomprensione
della liturgia da parte dei fedeli. Si è parlato già del carattere particolare del digiuno di
questi giorni. In questo senso entra anche il digiuno eucaristico. “Il
Signore è assente dal mondo, allora i discepoli digiunano”. C’è
anche però un altro fattore. L’unico mistero di questi tre giorni
culmina nella celebrazione della Veglia Pasquale, e in particolare
nell’Eucaristia. “Bramiamo, dunque, il pane celeste della Risurrezione
di Cristo”. Comunque per ciò che riguarda la comunione nell’arco dei
secoli, gli usi sono stati diversi. Inizialmente come ci testimonia Ordo
XXIII nella celebrazione del papa non ci si comunicava. “Chi vuole
comunicarsi vada nelle altre chiese consumando da ciò che è stato
conservato dalla celebrazione del giovedì”. Dal XIII secolo, però si
comunica solo il pontefice. Il popolo, fino alla riforma del Vaticano II
non poteva ricevere il pane eucaristico. Oggi la celebrazione del Venerdì non è stata molto
cambiata nella struttura celebrativa. E’ stata introdotta la comunione
dei fedeli, restituita dalla riforma del 1955, anche se forse sarebbe
stato meglio rimanere nella prassi antica, rappresentata tra l’altro
dalle tradizioni orientali o anche da quella ambrosiana. La celebrazione
si svolge nel primo pomeriggio. Il sacerdote indossa le vesti rosse,
simboleggianti la regalità di Cristo, e ciò dall’inizio della
celebrazione. L’ingresso del celebrante, fatto senza nessun canto,
prosegue con la prostrazione e la preghiera silenziosa. Successivamente,
dall’ambone, viene proclamata una delle collette a scelta, di nuova
composizione. Segue la liturgia della Parola. Le letture sono state
cambiate, e con ciò è cambiata anche la visione teologica. La prima
lettura dal profeta Osea viene sostituita da quella del Servo sofferente
di Isaia. Anche la seconda, al posto della lettura dall’Esodo, oggi
viene proclamata la lettera agli Ebrei, che vuole significare il
sacrificio di Cristo. Il vangelo, per l’antica tradizione, è sempre
quello di Giovanni. Si può fare una piccola omelia seguita dalle solenni
orazioni che, alcune riviste, e altre cambiate, esprimono meglio la
mentalità del nostro tempo. La seconda parte della celebrazione, l’adorazione della
Croce, è stata semplificata. Il messale presenta due forme del rito. Per
la comunione è stato abolito il Confiteor e l’assoluzione. Viene
riportato sull’altare il Santissimo, senza solennità. Durante la
comunione si può cantare un canto adatto, ma non più precisato. Alla
fine, dalle tre orazioni è stata conservata una sola: Omnipotens
sempiterne Deus… cui segue la preghiera super populum.
L’assemblea si scioglie in silenzio. Riassumendo possiamo dire che questa celebrazione
generalmente è un buon progetto celebrativo della Passione del Signore:
La Liturgia della Parola proclama la passione. Le Invocazioni
pregano la passione. La Venerazione della Croce adora la passione,
e la Comunione ci fa comunicare con la passione. E’ stato un
po’ criticato per motivo della comunione reintrodotta da Pio XII. Ci
sono infatti molteplici modi della presenza di Cristo, e la comunione
della Veglia è il culmine, cui tutto il cammino quaresimale conduce. Sabato santo.Sabato santo è il giorno
del grande silenzio – perché – come dice un’antica omelia, “il Re
dorme. La terra tace perché il Dio fatto carne si è addormentato ed ha
svegliato coloro che da secoli dormono”. Le Chiese orientali celebrano
la discesa di Cristo agli inferi. Egli, che rompe le porte dell’inferno,
redime e libera i santi, che aspettavano da secoli la sua risurrezione. La
chiesa romana, oltre all’Ufficio del mattino e della sera, non ha però
mai istituito alcuna celebrazione del Cristo nel sepolcro. E’ la
celebrazione silenziosa del tempo sospeso, del riposo, ma non del
nulla-fare. Sabato mattina venivano convocati i catecumeni per la pubblica
professione di fede. Questo giorno era segnato da un severo digiuno fino
alla celebrazione della Veglia. Purtroppo, per causa della sempre più anticipata
celebrazione della Veglia, fino al punto di celebrarla al mattino, si è
perso il senso primitivo di questo giorno. Grazie alla riforma liturgica
che riporta la Vigilia di pasqua alla sera, viene restituito al sabato
santo il significato originario. Vorrei menzionare qui l’uso in alcune chiese in modo
particolare dell’Est europeo, di benedire i cibi per il primo pasto
della domenica, proveniente forse dalle usanze franco-germaniche dell’VIII
sec. Ancora oggi è molto sentito e partecipato anche se, forse, l’uso
sarebbe da rivedere per motivi pastorali. Domenica di RisurrezioneVeglia della Notte santa – la Madre di tutte le veglie.
Così S. Agostino definisce questa celebrazione. Essa si colloca al cuore
dell’Anno liturgico, al centro di ogni celebrazione. Ad essa si
preparavano i nuovi cristiani, in essa speravano i peccatori, tutti
potevano di nuovo attingere dalla mensa ai “cancelli celesti”.
Essa rappresenta Totum pasquale sacramentum. Infatti in essa
si celebrano non solo i fatti della risurrezione, ma anche quelli della
passione di Cristo. Dalla comunità primitiva non abbiamo nessuna testimonianza
della celebrazione della Pasqua in una domenica precisa. Infatti i
cristiani celebravano la risurrezione del Signore ogni domenica, ogni
settimana. Ben presto, però, si è iniziato a commemorare la resurrezione
in un giorno particolare annuale. Già gli scritti del III sec. come ad
es. Didascalia Apostolorum, ci danno la testimonianza di queste
celebrazioni. Si insiste sul digiuno, di cui abbiamo già parlato, sul
vegliare di tutta la notte nelle preghiere, nelle suppliche, con salmi e
le letture fino alle tre
della notte. La lettura della Parola è uno dei punti principali. Non è
molto facile stabilire lo schema antico delle letture. Probabilmente le
letture erano sei. Quasi sempre poi sono presenti la lettura dalla Genesi
(creazione), il sacrificio di Abramo, il passaggio del Mar Rosso… La Veglia primitiva non ha accenni in proposito
all’istituzione dell’Eucaristia. Nella tradizione romana però la
lettura del passaggio del Mar Rosso viene interpretata in senso
battesimale. Dunque nel VII sec. lo schema della celebrazione potrebbe
essere questo: La lettura della Parola, La celebrazione del Battesimo, La
celebrazione dell’Eucaristia. A questo, abbastanza presto, si aggiunge anche la Liturgia
della Luce, che apre la celebrazione. Il rito probabilmente proviene dal
“lucernario” di cui abbiamo diverse testimonianze. Già Egeria ci
tramanda che a Gerusalemme nel IV sec. si accendevano la sera, con una
certa ritualità, le candele. Probabilmente all’inizio, questo gesto era
solo di tipo pratico, perché era buio. Anche il Gelasiano antico, che
rappresenta la liturgia dei Titoli, ha l’Accensione della candela. Ciò
non è però presente nelle celebrazioni papali, ma dal V-VI sec. diventa
prassi per tutte le chiese, tranne quella del pontefice, che l’assume
solo verso XI sec. Dal X sec. si aggiungono nel sud della Francia, i grani
d’incenso che arrivano anche a Roma verso XI sec. Il canto che accompagna l’accensione della lampada è
assai antico. Già Ippolito Romano ci presentava una preghiera di
benedizione del cero durante la cena. Il canto del Exultet in
diverse forme è testimoniato dal IV sec. Per ciò che riguarda il tempo della celebrazione abbiamo già
fatto qualche accenno. Inizialmente e fino al V sec., era una celebrazione
notturna che finiva all’alba. Ma dal VI sec. si sposta sempre più
avanti. I motivi di questo cambiamento potrebbero essere i seguenti: i
candidati al battesimo non sono più adulti ma bambini e non era facile
farli vegliare di notte. Un altro motivo può essere quello del digiuno
che poteva essere interrotto solo dopo la veglia. Nel IX sec. la
celebrazione è già in crisi; si
cerca allora di anticiparla, arrivando all’assurdo, con la disposizione
del papa Pio V, che vietò la celebrazione della messa nel pomeriggio. Così
tutta la celebrazione della veglia notturna finiva a mezzogiorno del
sabato; ciò a scapito della molteplice simbologia di questa notte santa.
Solo con la riforma del 1951, che anticipava quella vaticana, si
ripristinava la celebrazione nelle ore notturne. Siccome tutti i riti finivano di sabato, la domenica
rimaneva “vuota”. Anche Leone Magno ha ancora un sermone solo per la Veglia. Ma all’inizio del V sec. nasce
un formulario anche per la messa della domenica di Pasqua. Il Gelasiano
Antico ne è la testimonianza. Una piccola menzione deve esser fatta dei Vespri battesimali
celebrati dal V sec. e descritti nell’Ordo XXVII dell’VIII sec.
Scomparsi nel XIII sec. oggi suggeriti perché siano ripristinati. Oggi la celebrazione è stata ritoccata in diversi punti, ma
soprattutto semplificata nei riti. Consta di quattro momenti fondamentali.
1.
La liturgia della luce La liturgia della luce, essendo compiuta nelle ore notturne,
ha ripristinato la sua simbologia. Il rito è stato semplificato con la
possibilità di adattamenti ulteriori sia da parte del celebrante che
dalle Conferenze Episcopali. Compiuta la benedizione del fuoco e del cero,
l’assemblea fa rientro in chiesa con il triplice acclamazione del
“Cristo – luce del mondo”. Degno di sottolineatura è il fatto della
partecipazione dell’assemblea, sia nella risposta “Rendiamo grazie a
Dio”, che nell’accensione delle loro candele; prima della riforma
l’assemblea era quasi ignorata. Segue il canto dell’Exultet che
oggi può essere cantato anche da un cantore. Alcune voci critiche hanno
sottolineato l’”assenza” dello Spirito santo, alquanto importante
nel senso del “fecondatore” dell’acqua battesimale. Forse sarebbe più
opportuno anche collocarlo dopo la Liturgia della Parola come sintesi di
essa. La Liturgia della Parola è stata arricchita con le orazioni
“a scelta”, che rendono più facile la comprensione delle letture.
Oggi abbiamo nove letture scelte dall’Antico e dal Nuovo testamento. Si
può tralasciarne qualcuna, mai però quella dell’Esodo, cioè del
passaggio del Mar Rosso. Nel varco dall’Antico al Nuovo si ha il canto
del Gloria – canto pasquale per eccellenza - accompagnato dal suono
delle campane. Quell’inno nell’Occidente fu riservato proprio alla
Notte santa. A ciò si aggiungono diversi “Alleluia” che annunziano la
gioia della Risurrezione del Signore. Alla Liturgia della Parola segue la Liturgia Battesimale. Il
messale presenta due varianti: quando ci sono i battezzandi, oppure la
sola benedizione dell’acqua lustrale. Qui vediamo una novità non
indifferente: la rinnovazione delle promesse battesimali e l’aspersione
dell’assemblea con l’acqua benedetta. I fedeli portano in mano la
candela accesa col fuoco nuovo, che simboleggia l’attesa del Signore che
ritorna alla fine dei tempi. E’ da sottolineare che i padri più che
l’attesa della risurrezione vedono qui l’attesa escatologica.
Parafrasando si potrebbe dire: “se vedete la prima alba celebrate
l’Eucaristia. E’ segno che questa volta il Signore non verrà”. Si è voluto lasciare alla Veglia il senso battesimale.
Pertanto se ci sono i candidati al battesimo qui ha il luogo la
celebrazione del sacramento. Al termine la celebrazione prosegue con l’Eucaristia.
Tutto il mondo cosmico è rinnovato dal Mistero Pasquale. I neo-battezzati
per la prima volta si comunicano assieme con tutti i fedeli. Tutti
partecipano al sacramento dell’altare, a cui l’intera preparazione
quaresimale e il digiuno intra-pasquale hanno portato. Purtroppo dal punto di vista pastorale c’è ancora molto
da fare, perché la Veglia sia riscoperta anche da parte dei fedeli. La
Vigilia di Natale ad es., riesce abbastanza bene; tanto più dovrebbe
essere celebrata questa, La Madre di tutte le veglie, unica
nell’anno. Si dovrebbero forse, accentuare maggiormente gli elementi
fondamentali di questa celebrazione: la Liturgia della Parola, la
celebrazione dell’acqua e soprattutto la celebrazione dell’Eucaristia,
che è il coronamento di esse. Quest’ultima rischia però di passare in
secondo ordine, in quanto non comporta una propria originalità. ConclusioneAbbiamo voluto ripensare in breve la storia e i concetti dei tre giorni santi del Triduo Pasquale. Sicuramente queste considerazioni ci saranno di arricchimento, non solo dal punto di vista scientifico o intellettuale, ma soprattutto dal punto di vista spirituale. Siamo cosciente dei limiti di questa piccola ricerca, che forse in qualche momento è stata ripetitiva. Il materiale di studio, però, è molto vasto. Don Giacinto
|